Da IlFondo :
Oggi mi va proprio di ringraziare apertamente una casa editrice intelligente, la Mursia, un autore di calibro seppur di giovane età, Ippolito Edmondo Ferrario , Luciano Lanna per l’impeccabile prefazione al di cui qui testo, i Mercenari italiani e non…
Sì oggi, schiettamente, voglio dire grazie a tutti coloro su citati per il volume, appunto, Mercenari gli italiani in Congo 1960.
Lettura veloce, agile, curiosa. Stile infallibile e, giornalisticamente parlando, di taglio franco, intimo e diretto. Di più non si può e non si deve chiedere…
Ippolito Edmondo Ferrario è una vera miniera di informazioni a tal riguardo. Scrittore e giornalista del Secolo d’Italia, nato nel 1976, Ferrario è già autore di saggi e romanzi.
Luciano Lanna scrive di lui, partendo dalla rimozione della sindrome deficiente del e sul Mercenario in Congo ed oltre, figura seccante da ricordare nella vulgata storica: «… Adesso c’è anche Ippolito Edmondo Ferrario che quel tabù lo rompe definitivamente, riuscendo a raccontare anche un’altra Africa italiana, quella forse più rimossa e più scomoda e che riguarda l’epopea degli anni Sessanta in cui molti italiani tra i venti e i trent’anni abbandonarono la vita di tutti i giorni per tentare l’avventura nel Continente Nero… Ecco Ferrario ci restituisce adesso i ricordi, i volti, le senzazioni, le memorie e anche qualche nome di questi italiani sconosciuti ai più… Di questa Armata Brancaleone - proprio così la definisce più di qualche reduce - le pagine di Ferrario ripercorrono per la prima volta alcune biografie, ricordando anche qualcuno che in Africa ha lasciato la vita come il coraggioso veneziano Italo Zambon o il Pedersoli… E adesso, anche grazie a Ferrario, questi ragazzi e la loro epoca possono rientrare a pieno titolo nella memoria condivisa di un’Italia che, avviatasi nel ventunesimo secolo, sta finalmente liberandosi di tanti veti e tabù che ne hanno lacerato la tenuta nella seconda metà del Novecento». Ed allora subito a scorticare via dall’immaginario collettivo quella fotografia di stantio stereotipo che vuole il mercenario solo, soltanto e solamente brutto, sudicio, cattivo ed avido. Ed a restituire al «mestiere delle armi» quella sua dignità professionale che ha dovuto sobbarcarsi, in passato, i cosiddetti lavori sporchi di cui non si doveva risciacquar pubblicamente. Con la domanda che ha un sapore di certo rimpianto: «Ma i Mercenari possono ancora esistere e sussistere?».
Il resto lo lascio dire all’autore stesso che ringrazio per la sua piena disponibilità.
Diciamolo subito, Ippolito, a chi saranno devoluti i diritti d’autore di questo tuo libro?
I diritti d’autore verranno devoluti a Popoli Onlus, associazione onlus, appunto, impegnata nell’aiuto concreto quali ospedali da campo ed altro, del popolo Karen perseguitato dalla giunta militare repressiva del governo birmano. Gli appartenenti a Popoli sono persone che rischiano ogni giorno la vita in prima persona e che non hanno certo la notorietà od i riflettori che sono dedicati ad analoghe Onlus come Emergency di Gino Strada. Già solo per questo sono doppiamente meritevoli.
Quanti libri al tuo attivo? E per il futuro?
Ne ho diversi all’attivo anche se alcuni chiamarli libri è un azzardo. Sono ancora un principiante, che, però si è fatto una bella gavetta. Attualmente ho tre volumi in lavorazione: uno sulla musica cosiddetta “alternativa” degli anni 70′, uno sulla guerra d’Algeria (ma non posso dire di più) e poi sto scrivendo un libro in memoria, e sottolineo il concetto “in memoria” di Giancarlo Esposti, militante di Ordine Nero assassinato a Pian del Rascino in un conflitto a fuoco con i carabinieri.
Di quale Africa parli in “Mercenari”? Qual’è la tua Africa? Quale l’Africa Italiana? Congo ma non solo? Quei lontani anni ‘60?
Sarò sincero. La mia Africa è quella che so per sentito dire… non ho l’indole del viaggiatore. Sono un curioso di natura, m’interessano gli avvenimenti “diciamo dimenticati”, soprattutto quando sono volutamente ignorati. Ho cercato di raccontare una piccola parte di storia italiana svoltasi nel Congo degli anni 60, quando diversi ragazzi partirono per l’ex colonia belga inseguendo un sogno, un ideale e diventando per la storia, quella ufficiale, dei semplici mercenari. In quel paese lontano dalla civiltà europea, credo che avvenne qualcosa di speciale e di unico, che è sempre stato raccontato a metà o peggio con faziosità. Il Congo fu, in quel periodo (dopo l’indipendenza e durante la guerra civile), il crocevia di moltissimi combattenti del secondo conflitto mondiale, ex Wermacht, SS, legionari, inglesi ecc. che, non riuscendo ad accettare la nuova Europa, tentarono ivi l’avventura e non solo quella. Si venne a creare, così, un variegato ed interessante mix di umanità europea nel quale ognuno aveva alle spalle una sua storia personale, a volte di carattere straordinario. Pure gli italiani vi arrivarono numerosi. Non solo i ventenni ma anche quei quarantenni che avevano vissuto l’esperienza della RSI. Due generazioni a confronto, dunque, insofferenti all’Italia del boom economico degli anni 60′.
Chi sono i Mercenari? E quale il loro “mestiere delle armi”? Facciamo un gioco di associazioni, se ho ben capito: RSI, Para, Legionari e loro associazioni, Affreux, Mercenari. Cos’altro o meglio chi altro? Quali furono i loro ruoli? “Via il consumismo” ed avanti con l’aiuto….
I mercenari, chiamiamoli così, erano italiani, ragazzi che allora non digerirono l’atteggiamento buonista e codardo del governo italiano che di fronte al massacro degli aviatori italiani di Kindu proseguì nella missione di pace come se nulla fosse accaduto. Ricordiamo che a Kindu furono massacrati, fatti a pezzi e poi mangiati tredici aviatori italiani impegnati nella missione Onu per portare generi di primo soccorso ai civili congolesi. Bene, molti ex paracadutisti che frequentavano le sezioni ANPDI (Associazione Nazionale Paracadutisti d’Italia) di allora, non tollerarono che il governo proseguisse la missione Onu senza batter ciglio. Sentivano il bisogno di giustizia, di vendicare i propri commilitoni uccisi perché inermi. A questo desiderio di giustizia subentrarono altri fattori: il fascino dell’avventura e l’insofferenza per il mito dell’Italia borghese di quegli anni riassumibile nella triade posto di lavoro sicuro, macchina, mutuo per la casa. Questi ragazzi, ribelli nel senso migliore del termine, nel Congo intravidero una possibilità di riscatto e di avventura. Non dimentichiamo, poi, che c’era per loro la possibilità di impugnare le armi e di combattere contro lo spettro del comunismo che anche e già nell’allora Africa dilagava.
Mercenari italiani ma non solo… “Tabù storiografico e censura”. Perché? Ed ancora cosa su tutti quelli, di mercenari, che vennero trucidati e letteralmente mangiati?
Censura e tabù storiografici hanno pesantemente condizionato tutta la faccenda. Il termine mercenario nell’immaginario collettivo già di per sé non suscita immagini positive. Se poi lo associamo in tempi moderni ad un gruppo di italiani, certamente con simpatie neofasciste e pronti a mettersi in gioco in prima persona, ecco che la censura deve, propriamente, intervenire. Così si dimentica il fatto che molti di questi italiani in Congo salvarono, letteralmente, civili, religiose e religiosi, bambini, dai massacri. Si è, purtroppo, preferito additarli come biechi sanguinari alla mercè del migliore offerente. Cosa tra l’altro neppure vera tra i soldati di ventura della vecchia generazione, per intenderci quelli alla Bob Denard. Il fattore politico giocava e giocò sempre un ruolo di primo piano. Si andava a combattere per una parte o per l’altra non solo per i soldi ma sapendo per quale causa ci si batteva. È pur vero, e non lo si può negare, che molti di questi soldati di ventura, idealisti, furono sfruttati dai giochi di potere dalle super potenze. Questo, però, è un altro discorso più vasto e complesso.
“Che faccia ha un mercenario”? Quale la sua psicologia?
Posso essere sincero? Nel corso della mia indagine giornalistica, ho conosciuto persone normali… Persone normali con storie incredibili. Veri e propri “ragazzi di sessant’anni e più” con uno spirito ancora oggi da fare invidia a un ventenne. Questione evidentemente di mentalità. Inquadrarli dal punto di vista psicologico non è semplice. Più che altro per non cadere nella retorica becera da sociologo di provincia. Ripeto, questi “ragazzi” furono dei ribelli e lo sono ancora, seppur in modo diverso da allora. Una particolarità che concedo a voi in quest’intervista: le cene e le serate più divertenti degli ultimi mesi le ho passate proprio con loro. Non ho mai riso così tanto. Anche grazie alla loro capacità di sdrammattizzare e di raccontarsi in modo semplice e con una forte autocritica. Cosa che difficilmente si riscontra in altri ambienti…vedi quelli della Resistenza italiana, dove tutti sono eroi e tutti eredi di grandi imprese.
Esistono ancora i mercenari? O meglio, quali sono quelle cause od elementi che possano permettere la sussistenza del mercenario? Insomma è ancora il tempo dei Mercenari con la “M” maiuscola?
Oggi i mercenari si chiamano Contractors ed operano attraverso agenzie utilizzate da multinazionali e superpotenze. Non voglio dare giudizi affrettati sulle persone che, oggi, fanno questo mestiere. Varrebbe la pena comunque incontrarli e conoscerli (mi sto già muovendo in questo senso) e raccontare anche di loro in un altro saggio per percepire le eventuali differenze o somiglianze. Non sono uno che ama dare giudizi senza conoscere prima i fatti e non mi permetterei mai di scrivere un libro per denigrare un “X” ambiente o “X” persone. Preferisco tenere un atteggiamento costruttivo che non significa, certo e però, santificare o idealizzare cose o persone. Questo sia chiaro. Di certo convengo sulle eventuali attinenze e conseguenti differenze tra i ragazzi mercenari di allora e quelli di oggi.
Bob Denard… e gli altri. Chi erano? E Come hai contattati i “nostri” mercenari?
Bob Denard era un soldato libero, libero di scegliere da che parte stare e combattere anche se indubbiamente operò sempre dalla parte della Francia o comunque con il suo appoggio. È una figura che non si può liquidare in poche righe. Nel mio libro ho affidato il suo ricordo ad una persona che ebbe modo di lavorare con lui. Per contattare i vecchi mercenari mi sono affidato alla bontà e alla fiducia degli amici dell’ANPDI di Milano che hanno creduto nel mio progetto e mi hanno messo in contatto con i reduci del Congo.
Mercenari tra cinematografia, editoria e musica?
Naturalmente l’impatto mediatico dei mercenari, dal cinema ai libri, passando per la musica, è sempre stato forte. Se qualcuno mi dovesse chiedere di parlare dei mercenari del Congo o comunque dell’Africa del secolo scorso attraverso uno di questi filoni e di riassumere il discorso attraverso un film e una canzone suggerirei questo: a livello musicale di ascoltarsi la bellissima canzone “Il mercenario di Lucera” cantata negli anni 60′ da Pino Caruso al Bagaglino di Roma, motivo che riassume perfettamente la filosofia dei vecchi mercenari di cui parlo nel libro. Ed un film per tutti “I quattro dell’oca selvaggia”, una pellicola ben confezionata, con ottimi attori e calzante alla vita mercenaria che ho cercato, in parte, di raccontare.
A conclusione, chi ringrazi per questo tuo lavoro? E a chi lo dedichi?
Ringrazio i mercenari prima di tutto che si sono fidati del sottoscritto ed accordandogli la loro fiducia. Il che non è poco. Si tratta di persone che per quarant’anni non hanno mai cercato i riflettori e che si sono concesse alle mie interviste dopo misurata meditazione. Poi devo ringraziare gli amici dell’ANPDI di Milano, in particolare Mauro Melchionda, sempre pronto e disponibile nei miei confronti. Il libro lo dedico a mia figlia ed ai ragazzi d’oggi. Credo che in questo caos attuale ci sia ancora, seppur sepolto, in qualcuno un sano spirito di “ribellione” che va incanalato nella giusta direzione. Con questo libro racconto come alcuni giovani, seppur di tanti anni fa, diressero la loro esistenza in imprese magari non memorabili, ma certamente da non dimenticare.
martedì 10 marzo 2009
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